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Immagine del redattoreStefano Campolo

Quando a Rodi c’erano gli italiani

Aggiornamento: 20 nov 2020


La piazza di Eleousa (photo credit Stefano Campolo)


Al di fuori di Rodi non sono rimaste grandi tracce della presenza italiana nella principale isola del Dodecaneso. La città che dà il nome all’isola preserva un intero quartiere e numerosi edifici con un’impronta razionalista, come ad esempio l’Albergo delle Rose, disegnato dall’architetto Florestano Di Fausto con Michele Platania tra il 1925 e il 1927, ancor oggi albergo e sede del Casinò. Di Fausto progettò nel 1924 il sacrario militare e nel 1927 il grande palazzo del governo davanti al porto di Mandraki. Molti altri palazzi intorno al porto e a ridosso della città medioevale hanno connotati familiari per i visitatori italiani.


Allontanandosi dalla città, invece, è piuttosto raro imbattersi in costruzioni che ricordino i trent’anni di dominazione italiana. Eppure, negli anni Trenta, nell’entroterra dell’isola furono costruiti quattro villaggi, prevalentemente per lo sfruttamento agricolo e del legno e popolati con emigranti provenienti da alcune delle zone più povere della penisola, meridione, Polesine, Veneto e valli trentine. Il primo fu Peveragno Rodio tra il 1929 e il 1931 (oggi Epano Kalamonas) a cui seguirono Campochiaro (Eleousa) nel 1935-36, San Marco (Agios Pavlos) nel 1936 e Savona, poi ribattezzata San Benedetto (Kolymbia) tra il 1936 e il 1938. Di quest’ultimo è sopravvissuta qualche casa rurale a ridosso della strada tra Rodi e Lindos, mentre tutta la zona verso il mare è in corso di trasformazione con resort, alberghi, parchi acquatici e abitazioni per lo sfruttamento turistico di massa. A Peveragno Rodio, chiamata così in onore di Mario Lago, allora governatore italiano delle isole dell’Egeo, originario di Peveragno nel cuneese, sono identificabili gli uliveti e i frutteti. A San Marco, nella zona sud dell’isola, rimangono la chiesa restaurata di recente e gli edifici della colonia in stato di abbandono.

Più consistenti le tracce a Eleousa, fondata come Campochiaro a 12 chilometri da Kolymbia verso l’interno. La piazza principale del paese è un gioiello di architettura razionalista nel cuore dell’isola.


La piazza a pianta rettangolare è divisa in tre settori longitudinali da due aiuole adornate da pini marittimi. Il settore centrale inquadra i due edifici che si attestano sui due lati corti in posizione rilevata su bassi terrazzamenti, a sud ovest la chiesa e a nord est il palazzo della Prefettura. Sui due lati lunghi sono quasi simmetrici sorgono due edifici la scuola del paese e quello che un tempo ospitava il mercato, le attività commerciali e i locali pubblici, entrambi protetti da un porticato in parte ad archi ribassati e in parte a tutto sesto. Nelle aiuole, all’ombra dei pini trovano spazio delle panchine, una piccola fontana e un monumento in pietra con portabandiera.


Come è possibile vedere nella galleria fotografica sottostante, solo la chiesa e il ginnasio, trasformato in palestra e con sale ad uso pubblico sono stati restaurati. Gli altri due edifici restano in condizioni di abbandono anche se è possibile scorgere gli antichi fasti nelle pavimentazioni a marmo, nei caminetti e in alcune decorazioni ancora presenti all’interno.

Come detto, il villaggio fu costruito nel 1935 per lo sfruttamento dei boschi circostanti e attirò un buon numero di boscaioli e segantini provenienti dalla Val di Fiemme, in provincia di Trento. Un libro del 2012 “Campochiaro, gli uomini del legno nell’isola delle rose” (Curcu&Genovese Associati Srl) del giornalista e scrittore Renzo Maria Grosselli, ripercorre le tappe di quella migrazione. Decine di famiglie fiammesi si trasferirono sull’isola per coltivare le foreste insieme ad altri connazionali provenienti dall’Alto Adige e dal Friuli Venezia Giulia. Quella che doveva essere un’emigrazione permanente però, si rivelò solo una parentesi di pochi anni. Dalla seconda metà del decennio lo scopo principale di Rodi per l’Italia fu di avamposto militare nell’Egeo. I principali investimenti pubblici furono dirottati dallo sviluppo agricolo al potenziamento bellico. L’entrata in guerra dell’Italia e la successiva sconfitta fecero il resto. Dopo la parentesi nazista dal 1943 al 1945 e il protettorato inglese fino al 1947, l’isola e tutto l’arcipelago passarono sotto l’amministrazione greca e proprio in quegli anni le ultime famiglie fiemmesi ritornarono in Italia.


Rodi era diventata ‘italiana’ dopo la guerra con la Turchia cominciata nel 1911. Nel 1912 le truppe italiane avevano occupato l’arcipelago nell’ambito di una più complessa operazione per costringere l’impero Ottomano ad abbandonare la Cirenaica. La Turchia però mantenne alcuni presidi in Libia e l’Italia non restituì mai le isole occupate. Per quasi dieci anni, complice anche il primo conflitto mondiale, Rodi fu poco più di un avamposto militare e vi si stabilirono poche decine di italiani. Con il trattato di Losanna, nel 1923, Rodi e le altre isole del Dodecaneso (nome ritenuto improprio sia geograficamente, le isole sono 13, sia storicamente, non vi sono tracce né riferimenti a tale denominazione nel passato), passarono all’Italia come possedimenti e cominciò un periodo di influenza della cultura e dell’economia italiana che ben presto travalicò le poche scuole in cui si insegnava la lingua. Negli anni Venti avvenne la prima espansione urbanistica intorno alla città storica, all’inizio degli anni Trenta il Regno tentò la via dello sfruttamento agricolo, soprattutto finalizzato alla coltivazione di frutta, vite e ulivi anche come valvola di sfogo a favore di migliaia di famiglie provenienti dalle zone più povere del paese. Sotto la guida del governatore Mario Lago si verificarono ampio trasformazioni tese alla modernizzazione del lavoro agricolo e alla riforestazione dell’isola dopo secoli di sfruttamento. Ci furono interventi consistenti ma sempre attuati in modo da rispettare la convivenza tra i coloni, i turchi musulmani e i greci ortodossi. Rodi e tutto il Dodecaneso rimasero comunque sempre un possedimento almeno fino al 1940 quando Mussolini propose l’istituzione di una speciale provincia inserita nel Regno d’Italia. Dopo la guerra, dal settembre del 1947 furono circa seimila gli italiani che evacuarono Rodi dopo aver venduto a basso prezzo ogni proprietà immobiliare. Per loro fu allestito un campo profughi nel barese. Un accordo tra i governi italiano e greco per il rimpatrio di tutti gli italiani entro un anno, fu siglato nel 1949. Nel 1950 chiuse definitivamente l’ultima scuola in cui si insegnava la lingua italiana.



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