È davvero fondamentale per l’Italia avere una compagnia di bandiera?
Ripubblichiamo di seguito con il consenso dell’autore e dell’editore l’articolo di Fabio Colasanti redatto per Uomini & Business
Stento a vedere il “cambiamento” che sarebbe operato da questo governo. In gran parte delle sue politiche si ritrovano tanti difetti di un passato che speravamo non tornasse più (soprattutto l’idea dello stato che risolve tutto), un po’ di nazionalismo tipico di ogni movimento populistico e una cattiva comprensione di cosa effettivamente serva all’economia e alla società italiana. Il caso Alitalia ne è una nuova conferma. Il ministro Toninelli qualche settimana fa aveva riproposto la stessa linea populistica di Silvio Berlusconi alle elezioni del 2008 e che è costata tanti miliardi ai contribuenti italiani: la difesa dell’italianità. Adesso Luigi Di Maio parla di una nazionalizzazione nascosta in un possibile intervento delle Ferrovie dello stato; ritorniamo agli anni sessanta/settanta, quando l’IRI era utilizzata per salvare imprese decotte.
Di cosa ha bisogno l’economia italiana? Di parecchie compagnie aeree (più ce ne sono meglio è) che facciano volare persone e merci da e per l’Italia in maniera efficace e a buon prezzo. E questo obiettivo deve essere raggiunto con compagnie che possano stare sul mercato senza ricevere aiuti di stato.
A cosa dovrebbe servire il fatto di avere una compagnia di bandiera (a parte il soddisfare il nazionalismo di qualcuno)? Questa società dovrebbe forse fare qualcosa che una compagnia che operi secondo regole economiche non farebbe? Se fosse obbligata a farlo dovrebbe essere ricompensata per le attività in perdita e ricevere aiuti di stato, sottoposti alle regole europee.
La compagnia di bandiera dovrebbe assicurare il grosso del traffico aereo del paese? Ma quale è oggi la compagnia aerea più importante per gli italiani? È Ryanair. Trasporta molti più passeggeri dell’Alitalia e serve molti più aeroporti italiani. Nel 2017 aveva oltre il 20 per cento del traffico aereo italiano con Alitalia poco sopra il 12 per cento tallonata da easyJet sopra al nove.
Perché mai l’Italia dovrebbe avere una sua compagnia di bandiera? I paesi che hanno una compagnia di proprietà statale o quasi sono molto pochi. La Francia e l’Olanda hanno due grosse compagnie che lavorano assieme in un solo gruppo. Lo stesso vale per la Gran Bretagna e la Spagna. Belgio, Svizzera ed altri paesi non hanno compagnie aeree di proprietà di azionisti del paese.
Per il turismo e il commercio estero italiani gli aeroporti sono probabilmente molto più importanti delle compagnie aeree. Se Fiumicino e Malpensa fossero più grandi, meglio collegati, più efficienti e più piacevoli per i passeggeri, molte altre compagnie aeree li servirebbero e più turisti arriverebbero in queste città. Firenze e Torino hanno aeroporti di dimensioni ridicole rispetto all’importanza turistica ed economica delle due città. Al tempo stesso, ci si dovrebbe chiedere se il nostro paese non abbia troppi piccoli aeroporti locali che non potranno mai diventare efficienti a causa delle loro piccole dimensioni. Molti di questi aeroporti costano poi molti soldi pubblici. Spesso le compagnie aeree che li utilizzano invece di pagare per la loro utilizzazione, ricevono una sovvenzione per ogni atterraggio e decollo! Come potranno mai coprire i loro costi attività economiche che regalano soldi ai clienti che usufruiscono dei loro servizi invece di essere pagate?
Cosa fa pensare che questo governo riuscirà dove tanti miliardi dei contribuenti e tanti tentativi passati hanno più volte fallito? Il 2 aprile 2008, parlando di fronte al Parlamento, il nostro ministro delle Finanze, Tommaso Padoa-Schioppa, disse: “In termini formali Alitalia è un’impresa. Tuttavia da anni essa distrugge, non crea, valore. Ha dunque perduto il connotato costitutivo dell’impresa e in senso tecnico dovremmo definirla un’azienda di consumo, al pari di una famiglia o di un’opera benefica”.
Sono passati dieci anni da questo duro giudizio e non c’è nessuna indicazione che le cose siano cambiate. Dal 2000 in poi la società non ha mai avuto un bilancio che mostrasse un utile salvo nel 2002 quando ha registrato un utile di 93 milioni dovuto al pagamento eccezionale di 171 milioni effettuato dalla KLM per liberarsi dall’accordo sottoscritto con la nostra compagnia di bandiera e che, per quanto riguarda lo sviluppo di Malpensa, non era mai stato realizzato. La KLM ha pagato per non essere più obbligata a continuare a lavorare con l’Alitalia!
Le offerte di acquisto ricevute finora non fanno sperare nulla di buono. Chi ha fatto offerte ha posto condizioni draconiane. Nessuno è disposto ad acquistare l’Alitalia nella sua forma attuale. Le offerte sono state giudicate insufficienti dal governo precedente e dal governo attuale. Ma forse dimenticano che nel 2008, la cifra per cassa effettivamente sborsata dai “capitani coraggiosi” fu di solo 427 milioni di euro e che Etihad assunse il controllo di Alitalia versando solo 388 milioni.
Una delle novità degli ultimi anni è stata la concorrenza tra l’alta velocità e il trasporto aereo. Questo è stato uno sviluppo positivo per i viaggiatori che hanno premiato il treno, per gli aeroporti di Roma e Milano che, già troppo affollati, sono stati alleggeriti un po’ e per la protezione dell’ambiente. Ma questo ha certo deteriorato i conti dell’Alitalia. Una fusione tra Ferrovie dello Stato e Alitalia, più che adombrare un risultato economico positivo grazie a delle sinergie operative, fa pensare ad un miglioramento attraverso una riduzione della concorrenza. In Germania, la vendita di Airberlin alla Lufthansa è stata molto criticata perché ha portato ad aumenti dei prezzi su delle tratte interne tedesche.
Ma ci sono anche altri rischi. Il perimetro della pubblica amministrazione è difficile da fissare. Viene rivisto periodicamente secondo una metodologia internazionale. Se alcune imprese, formalmente private, in cui lo stato ha una partecipazione finiscono per avere comportamenti chiaramente dettati dai desideri del governo c’è il rischio che siano incluse nella pubblica amministrazione (e che il loro debito sia considerato debito pubblico). L’invito recente del primo ministro ai manager delle imprese con una partecipazione statale ad “investire e assumere” rischia di creare problemi da questo punto di vista. Un intervento delle Ferrovie dello stato per “salvare” l’Alitalia rischia in ogni caso di essere visto come un aiuto di stato e di essere denunciato alle autorità europee dalle compagnie concorrenti. Già il finanziamento ponte concesso all’Alitalia per un periodo così lungo non è un’operazione che sia facile da autorizzare.
Ma poi rimane sempre la considerazione principale: quanto costerà l’operazione? Mediobanca ha stimato in oltre sette miliardi il costo dei vari salvataggi dell’Alitalia nella sua lunga storia. Una parte consistente di questa cifra è stata spesa durante il salvataggio operato dai “capitani coraggiosi” ispirati da Silvio Berlusconi. Oggi si parla di conversione del prestito ponte di 900 milioni in una partecipazione azionaria in una nuova compagnia che dovrebbe essere dotata di un capitale di un miliardo e mezzo o due.
Nel novembre del 2017, Ugo Arrigo scriveva su La Voce: “Con 900 milioni il governo italiano avrebbe potuto acquistare, ai prezzi correnti di borsa, circa un quinto di easyJet o di Air France-Klm, divenendone primo azionista davanti allo stato francese, oppure l’intera compagnia Norwegian, la prima low cost ad aver creduto nel lungo raggio”. È facile immaginare cosa si potrebbe fare con un miliardo e mezzo o due; il nostro governo potrebbe comprare sul mercato le azioni che gli darebbero il controllo di una grossa compagnia aerea, non di una con circa il 12 per cento del solo mercato italiano.
Certo è importante “salvare” posti di lavoro. Ma a che prezzo e per quanto tempo? Perché mai i lavoratori dell’Alitalia dovrebbero essere meglio protetti di altri lavoratori che perdono il posto? E con due miliardi di euro si potrebbe accompagnare la riconversione del personale per vari anni.
Ma siamo alle solite. I problemi sono complessi e richiedono soluzioni articolate e che devono essere messe in opera per molti anni prima di dare i frutti sperati. Troppi governi, e soprattutto quelli con un carattere più smaccatamente populista, cercano invece soluzioni che facciano titoli sui giornali e che ottengano il consenso di un elettorato poco informato. E nel frattempo il nostro declino economico continua. Dall’inizio degli anni novanta ad oggi, la nostra economia è cresciuta ogni anno meno di quelle degli altri paesi dell’eurozona con la sola eccezione del 1995. Siamo progressivamente diventati più poveri rispetto agli altri paesi dell’eurozona. Nella seconda metà degli anni novanta eravamo più o meno al livello di reddito nominale pro-capite degli altri paesi dell’eurozona; nel 2018 saremo attorno all’83/84 per cento del loro reddito pro-capite medio.
L’orginale di questo articolo è su Uomini & Business
* Fabio Colasanti è stato negli anni ’90 direttore del Dipartimento Budget della Commissione europea e poi stretto collaboratore del presidente Romano Prodi.
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